Ho sempre amato gli animali. Da piccola, fosse stato per me, avrei avuto il cavallo bianco della Vidal, una scimmia come Joli Coeur (quella di Remi, per capirci), un elefante, una giraffa, un pappagallo Ara da ammaestrare che “Portobello scansati!”, un gatto siamese, uno Sphinx ed un cane. No… uno era poco! Io volevo un numero imprecisato di cani.
Per i cani ho avuto un trasporto particolare, li ho sempre amati, tutti: grandi e piccoli, col pelo lungo o corto, di razza pura o di pura razza patchwork,… Mi importava soltanto che fossero cani.
E con loro non ho mai avuto paura!
“Stai attenta! Lui è un cane da guardia. Meglio se non ti avvicini!”. E dopo due minuti eccoci lì, lui – un pastore tedesco – ed io, seduti uno di fianco all’altra, nell’incredulità totale del padrone che, per poco, non ci era rimasto secco!
L’ho sempre voluto, un cane… ridimensionando, e non di poco, i miei desideri di infante. L’ho chiesto tante volte, ma i miei genitori, per molti anni, sono stati graniticamente fermi nel loro perentorio “NO! Il cane NO!”.
E la cosa mi faceva incazzare non poco!
In primo luogo perché – diamine! – un cane non avrebbe comportato i grossi problemi di gestione che, invece, sarebbero derivati dall’acquisto di un elefante o di una giraffa.
E soprattutto perché sapevo che a negarmi la compagnia di un cane era principalmente mia madre che, durante l’infanzia, di cani ne aveva avuti un paio. Ed uno di loro l’aveva anche aiutata a rialzarsi dal letto, dopo una malattia durata mesi.
Mia madre accampava mille scuse: il lavoro, la nascita del fratellino, il fatto che vivessimo in città, che il cane sporca e distrugge i giocattoli. E poi, la paura delle infezioni, specie in considerazione del fatto che io avessi “ereditato” da lei la mia onicofagia,… Insomma: ogni scusa era buona!
Un giorno, quand’ero ormai adolescente e mi ero quasi arresa a non avere un cane, la buona sorte mi sorrise. Una parente ci comunicò che la sua dolce cagnolina (Shani) aspettava due cuccioli. Quale occasione migliore per tornare all’attacco?
Mio fratello ed io iniziammo ad implorare mia madre. Solo lei, però, perché sapevamo che mio padre diceva di no solamente per far fronte comune con mamma ma, in fondo…
Ad un mese dalla nascita dei cuccioli, mia madre era ancora arroccata nel suo “NO”, ma noi figli l’avevamo circondata. Sfinita, lei mi disse: “Ti faccio prendere il cane solo se smetti di mangiarti le unghie. ADESSO!”
Detto fatto! Quello che non le era riuscito in dodici anni di smalti amari, peperoncino e chinino, le riuscì in un minuto. Era fine aprile del 1993.
Cujo nacque il 26 maggio.
A dispetto del suo nome, frutto della mia passione per Stephen King, Cujo era un cucciolo di Yorkshire Terrier di taglia piccola. Da adulto pesava poco più di due chili.
Due chili di pelo e amore incondizionato durato 13 anni, in cui abbiamo anche fatto i conti con la sua epilessia, ma mai un giorno ci è pesato restare a casa o rinunciare ad una festa per stare a casa e dargli la terapia.
Se n’è andato in silenzio, una sera di giugno del 2006, lasciandoci un vuoto incolmabile.
E la mia mamma? Distrutta! Lei che, in quei “NO”, nascondeva il desiderio di proteggerci tutti da quel momento di brutale sofferenza, di lancinante dolore, ha sofferto e ancora soffre tanto. Cujo, per noi, non era un cane: era un membro della famiglia.Ogni tanto lo ricorda e piange.
Succede anche a me.
Questo mio pezzo è dedicato al mio amatissimo Cujo e a tutti gli amici non umani che non ci sono più: buon ponte e, se c’è un altro posto in cui incontrarci, un giorno, ci si vede lì.
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