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Primo maggio: festa del lavoro sottopagato o di quello che non c’è

Primo maggio: Festa del Lavoro. Ma di quale lavoro stiamo parlando?

Aprendo il mio profilo Facebook, al mio risveglio ieri mattina, ho trovato tantissimoi post di amici dedicati alla Festa del Lavoro (o dei lavoratori che dir si voglia): alcuni facevano gli auguri per questa giornata di festa, altri invece (e a titolo di cronaca erano la maggior parte), ironizzavano o, peggio, inveivano sottolineando l’indelicatezza di questa ricorrenza nei confronti delle troppe persone che, oggi, un lavoro non lo hanno perchè l’hanno perso o non ne trovano uno nonostante si affannino a cercarlo.Festa del lavoro

Come dar loro torto se, effettivamente, non c’è  nulla da festeggiare? Festeggiare un diritto che non è più garantito è come preparare una torta di compleanno per una persona morta! La disoccupazione, il precariato lavorativo, il problema degli esodati sono tutti aspetti di un unico grande male che affligge il nostro Paese e che lo sta mettendo in ginocchio. L’occupazione, dunque, è la piaga sociale del nostro Paese. Non che sia l’unica, ma diciamo pure che è una di quelle che maggiormente condiziona la nostra vita e le nostre abitudini.

Ci lamentiamo che questa nazione invecchia, che nascono sempre meno bambini. È vero, ma come si può pensare di avere un figlio (e non più di uno) se poi non si hanno risorse economiche sufficienti a crescerlo?

Ma questo è solamente uno degli effetti collaterali del lavoro che non c’è, nonostante ciò che si affannano a dire i nostri governanti: si ostinano a raccontarci la favola della ripresa economica e della riduzione della disoccupazione giovanile. Ammettendo pure che la riduzione della disoccupazione giovanile sia una realtà, non credo che dare lavoro ad un neodiplomato serva a rilanciare l’economia della nazione e a far crescere il PIL. (Su questa mia afferamzione torniamo dopo)

Parliamo tanto di disoccupazione giovanile, ma nessuno si sofferma a guardare che esiste una fascia di popolazione che ha più di 25 anni e meno di 55 e che conta un numero elevatissimo di disoccupati. Sono persone, queste, costrette a vivere ancora a casa coi genitori perché non hanno un reddito sufficiente a permettere loro di vivere altrove o, peggio, un reddito per pensare di andar via da sotto il tetto familiare non lo hanno proprio. Sono quei non-più-tanto-giovani-non-ancora-troppo-vecchi che qualcuno, anni fa, definì, diciamolo pure in modo leggero e tutt’altro che opportuno, bamboccioni. Lo ricordate? Fu detto che era comodo per queste persone restare sotto la gonna della mamma, senza prendersi delle responsabilità.

E allora parliamo di responsabilità. Come si può prendersi la responsabilità di un fitto di casa, del pagamento delle bollette, di fare figli se non si ha un introito? E, ovviamente, parliamo di un introito onesto!

Ma la nostra Costituzione, al primo comma dell’articolo 1 (“Principi fondamentali”) non recita che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro? E potremmo continuare leggendo gli articoli 2 e 3, nei quali sono riconosciuti diritti inviolabili, pari dignità sociale e, nel secondo comma dell’articolo 3, addirittura l’impegno da parte della Repubblica a rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della persona umana e dei lavoratori. [Per il testo integrale vi rinvio a: http://www.governo.it/costituzione-italiana/principi-fondamentali/2839]

Sì, sulla Carta Costituzionale è scritto proprio così, ma a quanto pare, in Italia non vale l’antico motto “scripta manent verba volant” o, quantomeno, non vale se si parla dei diritti della gente comune (non già dei cittadini privilegiati!). Oggigiorno, la lettura del testo costituzionale appare, agli occhi di molti, come una vera beffa (uso un eufemismo per non scadere nel turpiloquio!). Ma lo Stato non dovrebbe assumersi delle responsabilità nei confronti dei cittadini proprio alla luce di quanto scritto dai Costituenti? Sono solamente i cittadini comuni quelli che devono assumersi le responsabilità verso la nazione?

Ordunque: io credo che i cittadini accetterebbero di buon grado di assumersi delle responsabilità sia nella loro vita personale che nei confronti dello Stato, se solo fossero messi in grado di assumersele, queste responsabilità. Siamo difronte ad un problema che si struttura come un circolo vizioso dal quale non si riuscirà a venir fuori se non si capiranno alcuni piccoli, ma fondamentali principi.

Vi spiego cosa ho capito io del nostro Paese e dei suoi problemi. Il primo tra tutti è che vessare i cittadini con troppe tasse non fa altro che costringerlo a contrarre i consumi e riduce il risparmio. Questo si trasforma, col tempo, nell’impossibilità di investire e, peggio, di fare altri consumi. Il PIL si riduce, il debito pubblico aumenta e vengono chieste nuove tasse per coprirlo. Ma nel frattempo le aziende vessate chiudono i battenti ed i lavoratori si ritrovano a non lavorare più e a non avere più denaro da spendere. E, in tutto questo, lo Stato non fa nulla perché non ha le risorse per ridare slancio all’economia. Sbaglio o siamo al cospetto di un serpente che si morde la coda? O forse ho capito male io? Certo, le dinamiche sono molto più complesse, ma credo che mettere a fuoco i problemi, anche uno alla volta, sia un primo passo verso la loro soluzione.

Torniamo al problema lavoro. Abbiamo detto che si presta molta attenzione alla disoccupazione giovanile (fascia d’età under 25), mentre si presta assai poca attenzione ai troppi disoccupati nella fascia d’età tra i 30e i 45 anni. Sono loro, a mio avviso, la chiave di volta per venir fuori dall’enpasse in cui ci troviamo. Riflettiamo.

Dare lavoro ad un ragazzo appena uscito da scuola con il suo diplomino significa mettere nelle mani di un ragazzino una quantità di denaro che spenderà nell’acquisto di un’auto, di vestiti, nelle serate con gli amici, in amenità, ma resterà a casa di mamma e papà perché a 19 anni non si vogliono responsabilità: una casa da mandare avanti, da pulire, bollette da pagare, famiglia,…

Al contrario, un trentenne o un quarantenne sentono fisiologicamente il bisogno di uscire dalla casa genitoriale, di averne una propria (in fitto o comprandone una), di pagare bollette a sé intestate, mettere su famiglia e, magari, avere almeno un figlio. Dare uno stipendio a queste persone significa dunque aprire nuove linee di consumo e, di conseguenza, dare un impulso all’economia.

Ma no! Dare lavoro a queste persone significa mandare in crisi il sistema contributivo e pensionistico. Ma non è già in crisi, per non dire al collasso? E come siamo arrivati a questo? Siamo un popolo di lavoratori, di contribuenti (evasori a parte, si intende), ma da quache parte nel sistema c’è una falla. Ed è davvero una falla enorme se dovremo lavorare fino a 75 anni per avere uno straccio di pensione che ci basterà, forse, a malapena ad arrivare a fine mese.

Ma il probema non tocca solamente il futuro, le nuove generazioni che si affacciano ora al mondo degli adulti e per le quali c’è ancora la speranza che si trovi una soluzione; il problema è attuale, riguarda il nostro presente! Riguarda tutte quelle persone che sono troppo vecchie per trovare lavoro e troppo giovani per essere considerate vecchie. E sono persone che devono pur mangiare, comprarso dei vestiti, vivere insomma (anche se si tratta più che altro di sopravvivere!).

Questi non-giovani-non-vecchi finiscono per entrare in un sistema di sfruttamento o di lavoro clandestino che ha mille sfumature. Senza arrivare ai casi estremi di persone che finiscono col delinquere compiendo furti o rapine, parliamo di tutti gli altri.

Si sta sviluppando un primo grande fenomeno che è quello dello sfruttamento della disperazione da parte di tante aziende e società di servizi: reclutano personale promettendo mansioni impiegatizie o da operai con stipendio in linea coi CCN, ma poi propinano ai malcapitati di andare in giro a vendere prodotti porta a porta, offrendo compensi ridicoli e zero tutele a fronte di estenuanti giornate di lavoro (perché anche se non si riesce a vendere, si passa la giornata in giro, con la pioggia, con il sole, con la febbre,…).

E che dire, poi, di quanti offrono il mese di prova non retribuito? Al termine del mese di prova mai nessuno degli aspiranti risulta idoneo alla mansione e contrattualizzato e, quindi, “avanti un altro!” E mese dopo mese si riesce ad ottenere chi svolga il lavoro completamente gratis, mettendoci il 300% della propria energia nella speranza di risultare idoneo e di avere l’anelato contratto dal mese successivo.

Ci sono anche altri mille lavori con il classico contratto di collaborazione, sottopagati e nei quali non si ha nemmeno il diritto di ammalarsi perchè i giorni in cui non si lavora, non si ha di che mangiare.

E, dulcis in fundo, il lavoro nero. Uomini e donne costretti a svendere il proprio lavoro fisico o mentale, a farsi schiavizzare e senza nemmeno i contributi pagati, senza garanzie né attuali né future. Certo, qualcuno preferisce optare per il lavoro nero per non dover essere vessato dalle tasse, ma credetemi, la maggior parte dei lavoratori a nero vorrebbe un lavoro vero con annessi e connessi di responsabilità contributiva o impositiva.

Dunque, ieri è stata la giornata dedicata al Lavoro, ma io credo si dovrebbe iniziare a vedere questa ricorrenza o come una commemorazione del “caro estinto” o ribattezzarla come “Festa della Speranza in un Lavoro”.

Voi cosa ne dite?

Florinda

Florinda

Nata a Bari e cresciuta nell'hinterland, zitella per scelta altrui, da sempre "personaggio" controcorrente, si spende affinché la Cultura diventi di moda più dei tatuaggi (lei ne ha 9... per ora!) e i giovani imparino che essere individualisti (con una puntina di egocentrismo) è decisamente più appagante del farsi inglobare in un unicum omologato fatto di rituali e convenzioni. Se un dio esiste, lei gli ha chiesto in dono un cervello funzionante rinunciando ad un bel décolleté!

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