Carissimi Lettori, oggi torno a Voi con un quesito che, a mio modestissimo parere, dovremmo porci un po’ tutti: davvero l’innovazione tecnologica può essere il volano dell’inclusione? E davvero può esserlo nel breve periodo?
In questi ultimi giorni, nel pieno di questa breve campagna elettorale, sto sentendo spesso e da più parti parlare del binomio innovazione/inclusione; tuttavia, mi sia concesso di avere le mie perplessità in merito alla questione. Non tanto in merito a quanto la tecnologia ci possa aiutare. Tutti. Indistintamente. Ma se davvero potremo realizzare i buoni propositi in uno schioccar di dita.
Il nostro è un Paese che, sì, ha bisogno dell’innovazione e, forse, siamo anche una delle nazioni europee più arretrate da questo punto di vista. Ancora molta strada c’è da fare prima di allinearci agli standard di evoluzione tecnologica degli altri Paesi sviluppati. E non parlo della sofisticata tecnologia che possiamo trovare nei centri medici all’avanguardia, ma parlo di realtà ben più alla portata di noi comuni mortali. Ed è proprio per questo motivo che la vedo davvero dura pensare all’innovazione tecnologica come alla migliore, più potente e più presta arma a nostra disposizione per risolvere i problemi dell’inclusione.
Ma andiamo per gradi.
Oggi, per qualsiasi cosa, ci viene richiesto di inviare mail e pec, di inserire codici PIN e PUK, di leggere bar e QR code, di scansionare PDF,… Per i giovani e, ancor più, per i giovanissimi niente di più semplice!
Il problema inizia a farsi sentire già quando dai giovani si passa ai signori “attempatelli” e – peggio mi sento!!! – se parliamo degli anziani. Siamo generazioni che, ahinoi, non abbiamo ricevuto un’educazione tecnologica e, quindi, ci sta che siamo in difficoltà di fronte a queste tecnologie. Senza voler offendere nessuno, ma anche senza nasconderci dietro un dito: molti di noi sono analfabeti o semianalfabeti tecnologici.
Sicuramente l’innovazione ha mille e più di mille vantaggi, ma quanti disagi provoca alle persone tecnologicamente analfabete? Gente che, per ricevere una fattura, deve possedere un indirizzo mail, che per visionarla deve possedere un pc, un tablet o uno smartphone, che per stamparla… vabbé, ci siamo capiti.
Io penso alla “Sora Lillina”, nonnina ottantenne che deve rifare la carta d’identità e che, sola, si reca in Municipio: l’impiegato le fa compilare moduli, le prende le impronte e le stampa un foglio con sopra “mezzo PIN” e “mezzo PUK” e le comunica che l’altra metà le arriverà per posta con il nuovo documento. Si raccomanda di non perdere il foglio e le spiega anche che dovrà attivare il PIN per fare gli accessi ai portali tramite CIE.
Arrivati a questo punto, ve la immaginate la povera Sora Lillina? Senza nessuno che possa aiutarla, come farà?
Ma il problema non riguarda solamente la Sora Lillina. Pure io mi sono un attimino persa quando sono andata a rifare la carta d’identità!
Perché il problema – confessatelo! – riguarda buona parte di noi comuni mortali cresciuti quando la tecnologia era quella “sognata” da Gene Roddenberry, quella di HAL in “2001: Odissea nello spazio”, quella di K.I.T.T., mentre la realtà era chiamare la fidanzata dalla cabina o inviarle le cartoline dal militare e vantarsi di possedere un Commodore 64.
Noi poco tecnologici, tra noi ci riconosciamo facilmente: litighiamo con la cassa automatica del supermercato, sbagliamo il PIN al Bancomat, portiamo il foglietto con le password nel portafogli, ci incazziamo quando il decoder del digitale terrestre fa gli aggiornamenti sul più bello,…
Bene: se già facciamo fatica noi a star dietro alla tecnologia che ci incalza e, spesso, ci sorpassa, mi chiedo quanto possa essere facile ed inclusivo per quelle persone che la nostra società chiama “diversamente abili”.
Una società che pensa alla tecnologia inclusiva, dovrebbe prima pensare a creare le condizioni minime utili e necessarie affinché la tecnologia sia davvero utile all’inclusione di tutti (anziani, diversamente abili, analfabeti tecnologici,…), altrimenti si corre il rischio di mandare alle ortiche le buone intenzioni che, sia chiaro, non sono messe in dubbio, non da me. Il potenziale è enorme e i vantaggi in termini di miglioramento della qualità della vita sono esponenziali, a patto che l’accesso alla tecnologia sia facile per tutti, nessuno escluso. D’altra parte, non stiamo forse parlandi di inclusione?!
Ma, ancora più a monte, mi verrebbe da chiedermi: una società civile ha davvero bisogno di tenere vivo il concetto di “inclusione”? Ha realmente bisogno di creare una distinzione tra “abili”, “diversamente abili”, “inabili”? Tra giovani e anziani? Tra uomo tecnologico ed analfabeta tecnologico?
Una società davvero civile, secondo me, non dovrebbe distinguere. Semplicemente dovrebbe garantire a tutti il giusto livello di “tecnologicizzazione”, di vivere bene e di ricevere aiuto e sostegno alla bisogna.
E niente: resto una sognatrice!
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